RICORDO DI VITO FRAZZI
di Paolo Fragapane


Devo limitarmi a parlare di Vito Frazzi come maestro, quale mi fu al Conservatorio "Cherubini" di Firenze negli anni 1933-35. A parlare infatti di Frazzi come artista e come uomo singolarissimo, non basterebbero le pagine di questa pubblicazione. Alla scuola di Frazzi entrai per seguire il corso superiore di composizione, provenendo dalla scuola di armonia e contrappunto del maestro Corrado Barbieri. L'incontro con Frazzi (che già ovviamente conoscevo) fu assolutamente "morbido". Frazzi d'altronde aveva coi suoi allievi un atteggiamento sinceramente paterno. Egli stesso, in una lettera da Siena, ebbe a scrivermi un giorno che i suoi allievi erano per lui come figli di cui divideva i problemi, le ansie, le speranze, le attese. Il suo insegnamento non si muoveva solo sul piano dell'estetica, ma scendeva alla considerazione dei particolari minuti. Qui se un passaggio armonico, se un accordo non gli tornava, non c'era scampo: stava lì a ripeterlo diecine di volte sin che il problema non fosse pervenuto a soluzione. Era, in sostanza, molto lento nel correggere (come lo era d'altronde nel comporre). Si può aggiungere che gran parte del suo tempo egli spendeva nella tornitura delle articolazioni, d'accordo in ciò col suo illustre allievo Luigi Dallapiccola per il quale nella musica come nel corpo umano "i punti dolenti sono le articolazioni". Forse all'appagamento di una siffatta esigenza non era estraneo il fatto (motivo per noi scolari un tantino spassoso) che Frazzi, rivedendo i lavori dei suoi allievi, vi trovava quasi sempre mancanti un certo numero di battute. Ma egli non faceva come Jachino che si limitava a tracciare dei circoletti o dei circoloni intorno a ciò che a suo parere "non andava". Frazzi quelle battute le scriveva egli stesso, mostrando all'allievo ex re e non per coniecturas come l'episodio potesse uscire migliorato e, ancora una volta, con le articolazioni fluidificate da una più accurata "lavorazione" della materia sonora. La revisione dei lavori degli allievi non esauriva l'insegnamento di Frazzi. C'era lo studio della partitura (una partitura, poniamo, di Ravel aperta sul leggio e una serie di domande più o meno imbarazzanti rivolte agli allievi, sul perché di certi pizzicati di violini, sul perché di certi armonici di contrabbassi, e via dicendo); c'erano i discorsi, illuminanti e personalissimi sino alla faziosità, sulla musica e sugli esecutori (in particolare il lunedì mattina, dopo il concerto domenicale al Teatro Comunale); c'erano le musiche, per la più parte vocali (le più congeniali a Frazzi) ch'egli ci faceva ascoltare al pianoforte, cantandole con la sua voce d'orco capace non di meno delle più commoventi sfaccettature. E' forse di quelle "letture" ch'io serbo il ricordo più vivo, in particolare di tre opere: Boris, Tristano, Falstaff. Di Falstaff non conosco esecuzione che eguagli quella di Frazzi, se non l'edizione discografica di Toscanini (Verdi e Toscanini). Se pure Frazzi "fiorentino" non lo dicesse, è certo che in fondo all'animo egli sentiva e si compiaceva di appartenere a quella musicalissima terra parmense dal cui seno, come forze endogene della natura, erano scaturiti i due musicisti, ciascuno nella propria sfera di attività, da Frazzi più amati e glorificati.

P. Fragapane - Ricordo di Vito Frazzi
(da: Omaggio a Vito Frazzi 1888 - 1988)